Il Dubbio, 19 gennaio 2019
Roger Scruton: il conservatore eclettico che ama la tradizione e detesta il (nuovo) populismo
di Corrado Ocone
Il New Yorker, che pure è un raffinato periodico della sinistra intellettuale americana, ebbe a definire qualche anno fa il conservatore sir Roger Vernon Scruton (nato a Buslingthorpe, in Inghilterra, il 27 febbraio 1944) come «il più influente filosofo contemporaneo». Ovviamente, è difficile e forse pure errato (sicuramente inutile) mettere su una scala gerarchica i pensatori, anche perché la loro fama dipenderà dai posteri e da ciò che leggeranno in ognuno di loro (Hans Georg Gadamer parlava di «storia degli effetti»).
Fatto sta che, ad una lettura attenta della sua opera, vasta per quantità di pubblicazioni ma anche per la varietà dei temi affrontati, Scruton può essere definito uno degli ultimi pensatori in senso classico dell’Europa (forse solo Edgar Morin lo uguaglia in questa cifra). Pensatore classico significa che Scruton ha un solo problema: capire l’uomo, o forse meglio l’uomo della nostra civiltà, in tutti i suoi aspetti.
E quindi non può fermarsi di fronte agli steccati delle discipline e non può non unire a una cultura analitica e pregna di senso storico quella capacità di sintesi “enciclopedica” che hanno solo i grandi.
I leit motiv del suo pensiero si legano e organizzano quindi con logica conseguenzialità intorno a una serie di temi fondamentali che delineano un tutto organico e una compiuta visione dell’uomo e del mondo. Proprio per la vastità dei temi affrontati, il compito di introdurre al pensiero del filosofo inglese in poche pagine, come si è proposto di fare Luigi Iannone, aveva un che di proibitivo.
Una vera e propria sfida quella dell’autore, il cui risultato è Roger Scruton un agile libro che si presenta come una voce di dizionario, si legge facile e che ha preso posto nella raffinata collana di “Profili” diretta da Gennaro Malgieri per i tipi dell’editore Fergen. Lo stesso Malgieri, nell’introduzione al volumetto, definisce Scruton un poligrafo, elencando le sue molteplici attività: filosofo, studioso di estetica e organizzatore culturale, musicologo, giornalista e commentatore di giornali e tv, agricoltore e produttore di vino nella sua fattoria nella campagna inglese (ove organizza anche incontri e seminari). Iannone segue un percorso molto lineare, insistendo sull’importanza, per Scruton, del tema identitario. Su di esso bisogna però intendersi, sia perché l’identità delimita il senso del suo conservatorismo, sia perché essa non è concepita affatto da lui nel senso della chiusura astratta che è propria in questo momento storico di alcuni movimenti politici non solo europei.
Il conservatorismo di Scruton, come quello dei suoi due grandi maestri la cui eredità vuole in qualche modo recuperare (Edmund Burke e Thomas Eliot), è dinamico, attento alle esigenze della civiltà moderna e anche dell’oggi più immediato. Esso pretende solamente che ogni trasformazione si innesti in un terreno di continuità e gradualità e non si ponga come un reset completo e immediato del passato.
La Tradizione è infatti un serbatoio di idee, costumi, abitudini di vita e sociali, anche di “senso comune”: in essa l’uomo ha sedimentato la propria esperienza sulla strada dell’adattamento al mondo e quindi della civiltà.
Essa non è immutabile, anzi persino esige il cambiamento, ma pretende rispetto. Proprio questa mancanza di rispetto per le origini o per le radici, è stata all’origine di molte delle tragedie dell’età moderna. Ma essa, seppur in altro modo, è presente anche oggi nelle nostre democrazie e segna la crisi della nostra civiltà. «Una sorta di isteria da ripudio –scrive Scruton- infuria nei circoli europei checreano l’opinione pubblica e prende di mira una ad una le antiche e consolidate abitudini di una civiltà bimillenaria, proponendole o distorcendole in una forma caricaturale che le rende appena riconoscibili».
Quella che si è creata, potremmo dire sulla spinta del razionalismo e dell’illuminismo, è l’oicofobia, come la chiama Scruton, cioè una paura della propria casa, di ciò che va curato e accudito perché trasmessoci dai nostri padri. È in quest’ordine di discorso che si inserisce la rivalutazione da parte di Scruton, in chiave assolutamente democratica, dell’idea di Nazione. Ammesso che «il nazionalismo è un elemento patologico della lealtà nazionale», il pensatore inglese osserva che storicamente le nostre libertà e la nostra democrazia si sono affermate nella cornice dello stato-nazione. E non è un caso. Le istituzioni liberali e democratiche possono affermarsi solo incarnandosi nel concreto, non in quell’ottica globalista basata su un individuo astratto e spogliato di ogni sua particolarità storica e contingente che è propria delle organizzazioni sovranazionali e della stessa Unione europea così come è venuta prendendo corpo nel corso degli anni.
Una politica di libertà, e lo stesso liberismo, può affermarsi, in altre parole, solo se c’è una lealtà di fondo fra i cittadini, e questa può essere data solo da un’appartenenza “che scaturisce dalla cultura, dalla nazione e da Dio”. Nel “Manifesto dei conservatori”, che Scruton pubblicò qualche anno fa, sottolinea Iannone, «viene invocato un fronte conservatore lontano da retrive formule revanchiste ma che non receda sul piano delle libertà economiche e del libero mercato. Vale a dire non si reprima in un solipsismo che rasenti il ”reazionario’” e in una chiusura ad ogni confronti con l’esterno. In una condizione di questo tipo, dove i valori di riferimento vengano ripristinati, sarà pure possibile realizzare l’idea, oggi peregrina, di un liberismo connesso agli Stati nazionali, correlazione che negli scritti scrutoniani ritorna con una certa frequenza». In effetti, scrive Scruton, lo Stato nazionale è proprio
ciò che rende possibile il liberismo in quanto «definisce una fedeltà condivisa ad un luogo, a una storia, ad una lingua e a una rete di legami locali. Solo su questa base, la gente si fiderebbe l’uno dell’altro tanto da permettere quelle libertà che altrimenti potrebbero sembrare minacciose».
Proprio perché sono elementi “spirituali” quelli che per Scruton segnano l’appartenenza e l’identità, ogni accusa di xenofobia o peggio di razzismo è battuta in breccia. L’oicofilia che egli oppone all’oicofobia è anche inclusiva, ma solo nella misura in cui gli altri rispettino le non immutabili tradizioni dei popoli ospitanti. L’oicofilia significa poi attenzione all’ambiente che si è ereditato, umano e culturale. Proprio perché esso va preservato, non imbalsamato, Scruton si considera ambientalista ed ecologista. Egli ritiene anzi che l’ecologismo sia una di quelle buone cause che il conservatore deve sottrarre alla sinistra, depoliticizzandola e deideologizzandola. «L’ambientalismo –scrive- è la quintessenza della causa conservatrice, l’esempio più vivo nel mondo, come lo conosciamo, di quel partenariato fra i morti, i vivi e i non ancora nati, di cui Burke faceva l’apologia e vedeva come l’archetipo del conservatorismo. Il conservatorismo non vuole portare ad alcuna riforma radicale della società o all’abolizione dei diritti e dei privilegi ricevuti dal passato. Dunque, l’ambientalismo “non è una vera e propria causa di sinistra».
C’è in effetti, nel nostro autore, la tendenza a depurare da ogni ideologismo, e quindi a includere nella propria visione, molte idee progressiste: il suo è un discorso che tende sempre alla ricerca di una misura e di un equilibro, diciamo pure di un’armonia. Da qui le sue riflessioni si estendono quasi naturalmente al tema della bellezza, che è al centro di una parte importante della sua produzione scientifica.
Nelle sue pagine c’è forte la critica alla decadenza del gusto, all’affermarsi del Kitsch o di ciò che è semplicemente funzionale o utilitaristicamente appropriato (come si vede in certa urbanistica). I critici, per pura esigenza di mercato, avvalorano questo gusto, e anche un’idea di bellezza come capriccio e soggettività. Con ciò essi contribuiscono non poco alla distruzione di quei valori spirituali che hanno sempre temperato, nella nostra civiltà, gli interessi materiali. Su valori puramente utilitaristici ha preteso invece di costruirsi la stessa Unione Europea, dicevamo. E questo è stato il motivo che l’ha portata alla crisi attuale. Si sono rigettate le origini cristiane della nostra civiltà e si è pensato di poter costruire una coesione fra popoli diversi, seppur uniti appunto dal cristianesimo, su basi puramente procedurali e quindi burocratiche e centralizzatrici del potere. Scruton è anglicano, ma qui non fa problema di adesione ad una particolare religione, bensì a quella koiné e a quei valori che il cristianesimo ha trasmesso al nostro mondo. Ciò significa assumere anche un atteggiamento di umiltà e rispetto verso il mondo, consapevoli che «per la maggior parte degli esseri umani la religione è sempre stata l’umiltà davanti al volto della creazione». «Non si tratta di definire –scrive Iannone- il pessimismo come stile ed essenza del nostro agire ma confidare nelle consuetudini e nelle tradizioni, nei cambiamenti lenti, nell’idea che i limiti posti alla natura non debbano essere sempre e comunque superati e, allo stesso tempo, combattere le false speranze e l’ottimismo senza scrupoli».
Critico implacabile del multiculturalismo e della mentalità corrente, Scruton, come dicevo, si è molto impegnato nel riformulare, in un’ottica non retriva o reazionaria, alcuni punti dell’ideologia liberal: ad esempio difendendo il femminismo, quando non diventa ideologico e funzionale ad una politica. Particolarmente interessante, e Iannone vi dedica ampio spazio, è considerare come Scruton affronta il problema dei “diritti degli animali”.
Ovviamente per lui, titolari di “diritti” possono essere solo gli esseri umani. Ciò però non significa che noi non abbiamo doveri verso di essi: ce li assumiamo nel momento stesso in cui li facciamo dipendere da noi per la loro esistenza.
La compassione e la pietà sono importanti sentimenti umani, e così pure il dovere di preservare l’ambiente naturale che ci è stato trasmesso o abbiamo ereditato. Gli animali, come tutto ciò che appartiene alla natura e al creato, vanno rispettati. Lo stato d’animo, la Stimmung direbbero i tedeschi, con cui porsi di fronte al mondo è, per Scruton, cautamente ottimistica o, se si preferisce, moderatamente pessimistica nella misura in cui è scettica verso le grandi trasformazioni della realtà affidate all’uomo.La speranza, che è stato il valore che ha mosso i progressisti, proprio perché riposta in cose che andavano oltre le umane possibilità, si è spesso convertita in utopie destabilizzatrici della “natura umana” e foriere di tragedie storiche. Come scrive Gennaro Malgieri a proposito di un altro libro recente di Scruton, la raccolta di saggi “Confessioni di un eretico”, l’obiettivo “politico” che egli si propone, con la sua opera (in ampia parte disponibile in italiano), è «una chiamata a raccolta per una difesa tutt’altro che passiva di una civiltà al tramonto, che non è detto che debba necessariamente morire». La nostra, europea e occidentale.
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www.oltrelinea.news, 22 gennaio 2019
Mario Carli, l’uomo nuovo del Futur-arditismo
di Luca Lezzi
La ricerca di termini con cui catalogare, o meglio etichettare gli avversari politici, vive da un paio di anni una nuova proficua, ma non del tutto originale, fase. E’ così che è stato rispolverato il termine “rosso-bruno” per i seguaci di Diego Fusaro piuttosto che dei mezzi di informazione telematica che stanno soppiantando i colossi della carta stampata, ridottisi a mera copia-incolla delle notizie girategli dagli apparati dei partiti a cui rispondono.
Con un prodigioso balzo all’indietro anche Mario Carli, ardito, futurista, giornalista e molto altro, sarebbe, oggi, sicuramente finito nel ciclone dei rosso-bruni, senza il necessario approfondimento che la figura, l’uomo, le idee e le azioni meritano. E’ in questo filone che si inserisce il lavoro di Ada Fichera dal titolo “Mario Carli”, edito per la collana “Profili” delle edizioni Fergen curata da Gennaro Malgieri.
L’agile volume (113 pagine che scorrono rapide, proprio come solo un mezzo futurista saprebbe fare) condensano alla perfezione la vita e le fasi di uno dei più eclettici e affascinanti personaggi del Primo Novecento italiano. Mario Carli rappresentò in pieno l’uomo nuovo a cui le Avanguardie italiane mirarono a cavallo della Prima Guerra Mondiale.
Pienamente annoverabile nel genio italico, quello di uomini capaci di dilettarsi con eguale successo in ambiti diversi, dal giornalismo ai reparti d’assalto durante il conflitto (gli Arditi), da opere letterarie a romanzi biografici, fino ai compiti di console svolti in Brasile e Grecia, Carli visse in prima linea quella guerra che per i futuristi era sola igiene del mondo, nonostante fosse stato scartato per una forte miopia, andando oltre i limiti fisici nell’arruolamento da volontario negli Arditi giungendo al grado di capitano e conquistando la medaglia d’argento al valore e la croce al merito di guerra. Se il rapporto di amicizia, stima e fratellanza lo terrà legato per la vita ad Emilio Settimelli, Carli risulta ingestibile per i leader di quella Italia in continua evoluzione.
Quando partecipa all’impresa fiumana finisce per essere “esiliato” a Milano da Gabriele D’Annunzio con la scusa della gestione della rivista “La Testa di Ferro”, e quando chiede la candidatura nel listone del Partito Nazionale Fascista non solo non la ottiene, ma viene “premiato” con il consolato nella lontana Porto Alegre. Durante il Ventennio, o la parte che riesce a vivere di esso essendo morto prematuramente nel 1935 a quarantasette anni, Carli rappresentò quel “Fascismo intransigente” che nulla ottenne dal regime, pur credendo davvero nei suoi principi rivoluzionari. Già nel libro dedicato a Giuseppe Bottai, il nostro scrive di un sogno infranto e incompiuto.
Eppure, il lascito di Carli è immenso e riguarda, in ogni suo testo (che, per fortuna, negli ultimi anni sono stati ridati alla luce dalle case editrici Ritter, Seb, Aga e dal quotidiano Il Giornale) i più alti momenti della nostra Storia nazionale, che si intrecciano con la sua vita personale: il futurismo, l’arditismo, il programma politico degli uni e degli altri e l’intrecciarsi di questo con l’esperienza fiumana, prima, e il fascismo successivamente.
Per tutti questi motivi, accogliamo ben volentieri l’augurio finale dell’autrice, che scrive “il suo valore e la sua impronta meritano di essere omaggiate al di là di qualsiasi dilagante agonia di pensiero e di pregiudizio critico e storico”.
https://oltrelalinea.news/2019/01/22/mario-carli-luomo-nuovo-del-futur-arditismo/
www.formiche.net, 19 gennaio 2019
Roger Scruton, un conservatore per l’avvenire nel saggio di Luigi Iannone
È appena uscito il volumetto Roger Scruton di Luigi Iannone, edito da Fergen, primo contributo organico alla conoscenza del filosofo e poligrafo britannico. Nell’agile collana editoriale diretta da Gennaro Malgieri, “Profili”, Scruton viene “rivisitato” per quello che è, un pensatore conservatore che non si nega al presente e sviluppa una teorica della continuità estremamente interessante ribaltando antichi pregiudizi e ridicolizzando l’indifferenza di chi ritiene il conservatorismo un retaggio anti-storico. Dalla prefazione di Malgieri pubblichiamo ampi stralci
di Gennaro Malgieri
Se i conservatori facessero i conservatori ed i progressisti i progressisti, probabilmente la babele politica, culturale e concettuale nella quale siamo immersi non esisterebbe. E, chissà, forse vivremmo meglio almeno in rapporto alle idee. Nella marmellata ideologica che assumiamo acriticamente e proviamo a digerire, senza successo, ci troviamo di tutto per il semplice fatto che le culture di riferimento dei movimenti sociali e politici sono state cancellate. Le visioni del mondo sono state assorbite dalla visione unidimensionale del mercato che in sé non è una pessima cosa, lo diventa quando assume le fattezze di unico indice di valutazione della realtà e dei rapporti tra persone e Stati. E più o meno tutti nella deificazione del “mercatismo”, come ideologia totalizzante, ci si sono buttati a capofitto, indipendentemente dalle ascendenze culturali. I più convinti assertori di tale indirizzo sono coloro che “da sinistra vengono”, come si diceva una volta, avendo constatato che la matrice di fondo della loro azione politica s’è usurata e poi inabissata nelle profondità della storia. Tuttavia una certa coerenza la testimoniano: al materialismo storico hanno sostituito il materialismo pratico, il relativismo culturale, il determinismo dogmatico.libro scruton
“Conservare”, rispetto a questa omologante e pervasiva tendenza, è di contro un atteggiamento naturale, perciò la sua declinazione culturale dovrebbe essere definita in maniera meno superficiale e volgare di quanto ordinariamente accade, cioè a dire come un insulto. Se soltanto si approfondisse la nozione di conservatorismo, tra le più nobili e feconde della storia politica degli ultimi due secoli, probabilmente non si farebbe di esso un’etichetta denigratoria. A tal fine basta leggere un testo agevole e perfino piacevole dall’esplicito titolo Essere conservatori (D’Ettoris editore) del filosofo, ma sarebbe meglio definirlo (sempre che lo si possa definire) poligrafo inglese Roger Scruton. Non si tratta di un autore sconosciuto, ma i politici conservatori britannici, contrariamente da quanto ci si sarebbe potuto attendere, hanno dimostrato di non avere particolare dimestichezza con le sue idee e con la cultura conservatrice in particolare, a riprova di quanto si diceva, e rischiano perciò di finire stritolati dalle contraddizioni che hanno innescato essendo venuti meno ai principi ispiratori che, almeno fino all’avvento di Cameron, li avevano caratterizzati. E non è sconosciuto neppure in Italia dove, da qualche anno, i suoi saggi vengono regolarmente tradotti e può annoverare una schiera di “fedeli” che lo segue nel suo itinerario conservatore allo scopo di formare una “scuola di pensiero” che in Europa, nonostante alcuni pregevoli tentativi tedeschi e francesi, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, non è stato possibile realizzare.
Luigi Iannone, studioso tra i più attenti del pensiero di Scruton, con questo agile volumetto contribuisce a dare sostanza alla comprensione del “cammino” filosofico-politico del pensatore inglese proprio nella prospettiva di accendere maggiormente l’interesse intorno alla sua opera che offre una interpretazione originale tra le macerie della Destra europea, del sovranismo declinato ad usum delphini , del populismo demagogico spacciato per rivolta “illiberale” e perfino nei riguardi della negazione dell’Europa secondo la vulgata di euroscettici tanto ignoranti quanto velleitari. Naturalmente – ed è meglio precisarlo subito – Scruton è uno dei sostenitori del superamento dell’Unione europea, ma anche un apologeta dello Stato-nazione a cui ha dedicato pagine intense in molte opere ed in particolare sintetizzate nel volumetto-intervista che anni fa realizzò con lui lo stesso Iannone.
Sarà che il suo conservatorismo controcorrente, derivante dal conservatorismo classico, ma arricchito da una visione proiettata nell’avvenire, avversato dall’establishment intellettuale, non gli ha permesso di trainare il conservatorismo britannico che avrebbe tanto bisogno di studiosi e pensatori del suo peso per uscire dalle secche nelle quali è finito, resta il fatto che le idee che propone accendono comunque la discussione e producono documenti di grande interesse come il recente “Manifesto per l’Europa”, redatto da Scruton insieme con alcuni intellettuali tra i più prestigiosi di orientamento conservatore, presentato lo scorso anno a Parigi e del quale sedicenti populisti e sovranisti disgraziatamente neppure si sono accorti.(…).
A settantaquattro anni (è nato in Gran Bretagna a Buslingthorpe il 27 febbraio 1944) ritirato, si fa per dire, nella sua fattoria, osserva, interviene, scrive e “provoca” tendendosi fedele ad un’idea della vita e della storia: la continuità non conflittuale della Tradizione nella modernità (che critica aspramente quando si pone come alternativa alla prima). Sulla rivista che dirige, The Salisbury Review, Scruton interviene con la stessa forza che aveva qualche decennio fa, quando s’impose all’attenzione ripensando il conservatorismo alla luce delle esperienze culturali contemporanee, rinvigorendo la lezione di Burke e soprattutto di T.S. Eliot, i suoi due più elevati ed amati maestri, contribuendo a rendere percepibile un movimento che si riteneva appiattito esclusivamente sulla nostalgia venata di influenze “mercatiste”. Il pensiero di Scruton oggi è parte integrante del dibattito politico-culturale britannico e, sia pure indirettamente, influenza il neo-conservatorismo che cerca una strada tra le polemiche inconcludenti nello schieramento Tory a seguito della Brexit. È, dunque, al mondo della cultura che si rivolge non disperando che quello politico sappia guardare oltre la palude partitica nella quale annaspa. (…).
Scruton è un cristiano che tuttavia non lancia crociate di tipo fideistico, ma affidandosi ad un freddo ragionamento politico elenca tutto ciò che non va nel vecchio Occidente per potersi difendere e proporsi ancora come motore di storia. Un’accusa che rivolge in particolare alle élites europee le quali pigramente indietreggiano, una casta che si riproduce per cooptazione e concede spazi al nemico interno ed esterno il quale tende a svilire la nostra identità fino a sottometterla.
In Essere conservatore, Scruton testimonia della sua capacità di rilanciare le tematiche conservatrici non come sterile sfida al conformismo imperante, ma soprattutto come un progetto costruttivo esistenziale e politico su cui rifondare l’Occidente attraverso un’ appassionata diagnosi culturale.
A tal fine Scruton passa in rassegna tutto ciò che non va nel vecchio Occidente per potersi difendere e proporsi ancora come motore di storia. Scrive: “Il conservatorismo che io professo afferma che noi, in quanto collettività, abbiamo ereditato delle cose buone e dobbiamo sforzarci di conservarle”. Quali sono? La Tradizione, la concezione organica della società, la ricostruzione di una comunità fondata su valori non negoziabili. Alle classi dirigenti Scruton si rivolge, sia pure indirettamente, esortandole alla difesa delle specificità e delle differenze contro l’indifferentismo ed il relativismo culturale. E ribadisce, inoltre, che lo Stato-nazione, dato per morto dagli universalisti, è la garanzia primaria dell’ordine civile, politico e culturale verso il quale tendere. Così come non si può prescindere dal restaurare la concezione della bellezza a fronte di una tecnologia invasiva e totalitaria. L’indole conservatrice, sostiene, “è una proprietà acquisita delle società umane ovunque si trovino”. Disperderla, come sta avvenendo, è un crimine contro noi stessi.
Non saprei dire quanti sono oggi coloro che, insieme ai valori politici tradizionali, frutto di una civiltà millenaria che si richiama all’esperienza europea latu sensu, hanno la consapevolezza della necessità di preservare la fedeltà allo Stato nazionale al fine di tutelare il governo democratico e costituzionale, oltre alla bellezza e agli usi ed ai costumi che costituiscono gli elementi di una identità comunitaria. Temo non molti. Da qui la preoccupazione di coloro che vedono nella crisi della coesione della comunità nazionale la premessa del disfacimento dei rapporti tra cittadini e istituzioni. Siamo, insomma, vittime dell’ideologia dell’indifferentismo culturale affermatasi a discapito delle specificità dei popoli ormai omologati dalla “religione” del pensiero unico che ha travolto anche la nazione come sostanza viva di aggregati umani eredi di tradizioni, storie, visioni dimoranti entro territori definiti e legati da relazioni regolamentate da un principio di legalità condiviso. Le conseguenze le ravvisiamo nel potere delle organizzazioni internazionali che costituiscono, nel loro insieme, il cosiddetto “governo mondiale” fondato sulla delega di consistenti quote di sovranità ad una anonima burocrazia.
Il tracollo degli Stati nazionali, almeno in Europa, è risultato evidente negli ultimi anni quando le istituzioni comunitarie hanno inteso affrontare la crisi delegittimando ulteriormente i governi nazionali piegati alle logiche tecnocratiche di Bruxelles e di Francoforte. E si è cominciata a fare strada la considerazione che la fedeltà alla propria comunità è certamente prioritaria rispetto a quella di chi agisce in assenza di un vincolo nazionale. Che ciò porti alla scoperta di un neo-patriottismo è ovviamente prematuro per sostenerlo ancorché auspicabile. Ed in questo spirito va letto il volume di Roger Scruton, Il bisogno di nazione (Le Lettere), contributo rilevantissimo alla riscoperta dell’idea di nazione in chiave democratica e come elemento fondante il governo del popolo costituzionalmente riconosciuto da coloro che vivono su uno stesso territorio e nutrono un attaccamento al sentimento dell’appartenenza, al di là dei fattori etnico-religiosi che contribuiscono la falsare la nozione stessa di nazionalità esaltando piuttosto il tribalismo e l’intolleranza.
Perciò le istituzioni sovranazionali che abusano del potere di delega, secondo Scruton minacciano seriamente l’indipendenza dei popoli e allo Stato nazionale, che pure ha bisogno di essere migliorato nelle sue strutture, e, dunque, per lui non v’è alternativa a meno di non voler diventare genti prive di autonomia e spodestate delle prerogative storico-territoriali che ne hanno legittimato l’esistenza. A cominciare dal principio di cittadinanza, “dono principale delle giurisdizioni nazionali”, scaturita dalla relazione tra lo Stato e l’individuo, sulla base del riconoscimento che il secondo mostra nei confronti delle leggi emanate dal primo. E’ questo il fondamento di un costituzionalismo repubblicano, includente e condizionante allo stesso tempo, che s’ispira alla logica della responsabilità dichiarata dal “noi” e, dunque, ostile all’ “io” come imperativo egoistico. Lo Stato nazionale europeo – osserva Scruton – emerse quando l’idea di comunità definita partendo da un territorio venne iscritta in sistema di sovranità e di leggi. Dunque, “è vitale al senso di nazione l’idea di un territorio comune nel quale ci siamo tutti insediati e che tutti abbiamo identificato come la nostra casa”. Per questo motivo “la fedeltà nazionale è fondata sull’amore per un luogo, per le usanze e le tradizioni che sono state iscritte nel paesaggio e nel desiderio di proteggere quelle cose belle attraverso leggi comuni e una comune fedeltà”.
Insomma, la suggestiva difesa della nazione da parte di Scruton, è una lezione di sano realismo in tempi in cui l’avversione dello Stato nazionale e, più in generale, il rifiuto della stessa idea nazionale sono largamente diffusi e riflettono uno stato d’animo che Scruton definisce “oicofobia” cioè la tendenza che in qualsivoglia tipo di conflitto si denigrano usi, costumi, istituzioni , cultura “nostri” ripudiando così la lealtà o la fedeltà nazionale, prendendo sempre e comunque le parti di organismi transnazionali supportandone le direttive, come capita, per esempio, quando si sostengono sempre e comunque le decisioni dell’Unione europea o delle Nazioni Unite. (…).
In questo prezioso ed essenziale saggio, primo profilo organico apparso in Italia su Scruton, Luigi Iannone scrive: “Per Scruton, una comunità che voglia definirsi tale, ha l’obbligo di coltivare ‘il senso comune’ che è sempre legato ad un’appartenenza che scaturisce ‘dalla cultura, dalla nazione e da Dio’. Saremmo tentati di portare a supporto numerose tesi, che pure fa risaltare lungo tutto la sua corposa produzione saggistica, ma egli invece parte da quella meno ordinaria; vale a dire dalla strenua difesa dell’identità, ma non con le forme retrive che la storia del Novecento ci ha consegnato (dittature e totalitarismi), e perciò non serrandosi nelle strettoie poco praticabili di un nazionalismo contiguo al revanchismo. Al contrario, per Scruton, l’identità va difesa, tutelando e regolando di continuo i processi democratici. Modulando valori antichi con la realtà fattuale e mitigando tutto col ‘buon senso conservatore’”.
https://formiche.net/2019/01/scruton-conservatore-saggio/
www.formiche.net, 11 agosto 2018
La riscoperta del sindacalista rivoluzionario Angelo Oliviero Olivetti. Il saggio di Ada Fichera
di Gennaro Malgieri
Angelo Oliviero Olivetti” è un saggio che si legge tutto d’un fiato, come fosse un romanzo, il cui protagonista è un attivista, ma anche un pensatore, un rivoluzionario e un giornalista, un visionario
Vi sono autori in attesa, aspettano che il treno della memoria passi davanti a loro e li faccia salire dopo aver a lungo sostato nelle stazioni della storia. Di tanto in tanto viaggiatori solerti si accorgono che stanno lì, accanto a qualche binario, e avvertono il bisogno di segnalarne la presenza. Accade sempre più spesso da qualche tempo. L’ultimo intellettuale – dimenticato da troppo tempo, prescindendo da poche note sparse qua e là in libri di nicchia – è un sindacalista rivoluzionario, Angelo Oliviero Olivetti (1874-1931), a cui ha teso la mano la giovane studiosa Ada Fichera, già segnalatasi per una recente biografia politica di Pirandello che ha suscitato discussioni e ottenuto la meritata attenzione, con una breve, ma intensa biografia che ce lo restituisce come capofila di un movimento di pensiero purtroppo trascurato dalle valenze comunque sorprendentemente attuali.
Angelo Oliviero Olivetti (Fergen, pp.95, €10,00) è un saggio che si legge tutto d’un fiato, come fosse un romanzo, il cui protagonista è un attivista, ma anche un pensatore, un rivoluzionario e un giornalista, un visionario per il quale, non diversamente da altri protagonisti della politica e della cultura degli inizi del Novecento, come Corridoni, De Ambris, Panunzio, la “guerra nazionale diviene azione rivoluzionaria di massa”, osserva Fichera, la quale sottolinea pure come Olivetti riconosca “nel trauma epocale una rottura e un’apertura di nuovi e ulteriori spazi di rovesciamento”. Tanto basta perché il sindacalista ravennate che contribuì a svecchiare il socialismo, a depurarlo dalle incrostazioni marxiste, a ripulirlo dal riformismo asservito alle classi dominanti e a dare alle masse lavoratrici la consapevolezza di una missione storica che si poteva e doveva concretizzare nel riconoscimento della nazione come patria comune, oggi risulti più attuale di quanto di immagini. L’universalismo socialista del suo tempo e il globalismo odierno sono leggibili alla stessa maniera: strumenti di attacco alle identità che declinate in maniera ovviamente diversa nutrivano e nutrono le aspirazioni alla difesa delle specificità. In questo senso Fichera dice che il sindacalismo olivettiano è al contempo strumento rivoluzionario e conservatore di identità. Una definizione brillante, ma anche vagamente lirica come è stato quel “sentimento” della vita e del tempo che s’intitola appunto appunto al sindacalismo rivoluzionario.
“Questo (il sindacalismo, n.d.r.) è uno stato d’animo più che una dottrina, una maniera di sensibilità sociale che tende a tradursi in volontà operante”. Così Olivetti sintetizzava nella sua rivista “Pagine Libere”, il 1° luglio 1909, il proprio personalissimo punto di vista sul sindacalismo, svelando nel contempo, una verità ancora non accettata, ma che non avrebbe tardato a farsi strada: il carattere essenzialmente elitario del sindacalismo rivoluzionario.
Nello stesso articolo aggiungeva: “Aristocrazia? E perché no? Ma aristocrazia non proclamata da leggi o sdraiata sul possesso di ricchezza materiali; ma vera aristocrazia di sangue e di nervi aperta a tutti i forti; non aristocrazia del blasone, o del forziere, ma invece un’accolta dei più sensibili incontro alle sofferenze dell’ambiente, e dei più volitivi. Quindi élite schiettamente umana, perché composta di coloro che assommano nel cuore e nel cervello più umanità”.
Il suo sindacalismo, osserva Fichera, rimane dunque “fortemente aristocratico” ed anche “élitario”, non meno che “estetizzante” come lo fu, per esempio, in Corridoni. Una concezione dell’esistenza, insomma, prima che una dottrina politica e questo aspetto rimane certamente il più fascinoso dell’elaborazione teorica di Olivetti che fu incontestabilmente uno dei vertici teorici, unitamente ad Arturo Labriola ed Enrico Leone, che schiuse al movimento le ragioni storiche del suo esistere nell’ambito più vasto (per poi uscirne definitivamente) del socialismo italiano sempre meno adeguato a rappresentare le reali istanze della classe operaia. La polemica di Olivetti, tuttavia, più che contro il riformismo e le degenerazioni parlamentaristiche del socialismo fu rivolta contro lo “spirito del tempo”, segnando le linee di una inquietudine esistenziale ed intellettuale i cui esiti sarebbero stati anche “politici”.
La sua fu una reazione non soltanto “visione del mondo e della vita” contrapposta alle insufficienze del liberalismo e del socialismo nel comprendere l’epoca nuova e le ragioni dei nuovi soggetti sociali che massicciamente s’affacciavano sulla scena politica.
Olivetti è da annoverare nel solco di quella corrente rivoluzionario-conservatrice, forma e sostanza dell’ideologia italiana, che prepotentemente emerge dalle nebbie degli apriorismi e degli schematismi scolastici con i quali troppo spesso si vuole ammantare l’inquieto Novecento ideologico. La dottrina politica che Olivetti reclamava a fondamento della prassi rivoluzionaria del movimento operaio ebbe modo di delinearla sulla rivista “Pagine Libere”, fondata il 15 dicembre1906, portata avanti con alterne vicende fino al 1922, cui diedero il loro intelligente apporto, tra gli altri, Arturo Labriola e Paolo Orano come condirettori, e, tra gli altri, Francesco Chiesa, Guido Gozzano, Virgilio Brocchi, Alceste De Ambris, Benito Mussolini, Sergio Panunzio, Mario Missiroli. Su quella che indiscutibilmente fu la più autorevole rivista del sindacalismo rivoluzionario, ebbe modo il socialismo aristocratico, mutuato soprattutto da Sorel, di raccordarsi alle istanze nazionali. “Il sindacalismo come il nazionalismo – osservò Olivetti – riaffermano una originalità frammezzo all’onda dirompente della mediocrità universale: quello la originalità di una classe che tende a sprigionarsi ed a superare, questo amoroso di far rivivere il fatto ed il sentimento nazionale, inteso come originalità di una stirpe, come affermazione di una personalità collettiva, con caratteristiche note culturali sentimentali, con un istinto proprio e differente”.
Da qui le conclusioni cui pervenne l’Olivetti che concepì tanto il sindacalismo quanto il nazionalismo accomunati nel “culto dell’eroico”, uniche concezioni politiche agitanti le profondità di un “mito”: il primo quello dello sciopero generale e della rivoluzione sociale, il secondo la supremazia della stirpe e la rivendicazione dell’identità culturale.
Ancora una volta, in Olivetti, affiorano i caratteri dell’ideologia italiana che compiutamente si sarebbero poi materializzati nell’evento rivoluzionario per eccellenza del Novecento: la prima guerra mondiale.
La strada di Olivetti, dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo fu lunga e toccò tutte le stazioni che segnarono il percorso dell’Italia nuova. Nel 1912 fu per l’impresa libica; nel 1914-15 fu per l’intervento; nel 1921 fu tra gli esponenti dell’Unione Italiana del Lavoro di ispirazione corridoniana; nel 1924 aderì al fascismo e venne chiamato a far parte della “Commissione dei XV”; nel 1925 fu membro della “Commissione dei XVIII”; insegnò in quell’autentico laboratorio di idee che fu la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Perugina.
In Olivetti non soltanto la dottrina del sindacalismo rivoluzionario ma anche quella nazionalista e fascista ebbero un teorico particolarmente originale, capace di analizzare i problemi del suo tempo in un vasto e globale contesto rigettando, di conseguenza, il particolarismo settoriale.
La visione politica di Olivetti, lungi dall’essere totalmente datata, richiama oggi il grande tema della partecipazione al progetto nazionale di tutte le componenti della comunità: “La classe non sta contro la patria, ma entro la patria. Se la classe annulla la patria compie opera stolta e parricida, perché nel vasto brigantaggio del mondo una tale opera non può che essere di profitto alla patria degli altri”. Non è poco.
http://formiche.net/2018/08/olivetti-saggio-ada-fichera/
Il Sole 24 ore, 20 maggio 2018
Corridoni, anima rivoluzionaria
di Gennaro Sangiuliano
Il Tempo, 1 maggio 2018
La rivoluzione civile e morale di Filippo Corridoni
di Antonio Rapisarda
Nell’epoca in cui le “sintesi sociali” avvengono sì ma solo per sottrazione – come quella dell’ultimo governo “di sinistra”, guidato da Renzi prima e Gentiloni dopo, che ha sacrificato uno dei simboli, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, sull’altare della “flessibilità”, sol dell’avvenire 3.0 predicato nei Paesi nordici – le celebrazioni di una festa in piena crisi di identità (e di lavoro), come quella del Primo maggio, rappresentano un’occasione ghiotta per portare l’attenzione su una delle figure centrali – ma colpevolmente censurata, oscurata e rimossa dal dibattito ufficiale – dell’inquieto ‘900 che ha tradotto in prima persona e fino alle estreme conseguenze l’azione sindacale, legando coscienza di classe e interesse nazionale lì sulla trincea del Carso. Lo scopo? Portare il proletariato – nel nome del conflitto inteso come mutamento, rigenerazione – a diventare «soggetto di primo piano nella vicenda nazionale e dunque legittimato a decidere del destino della più vasta comunità». Ossia della Nazione.
Con queste parole Gennaro Malgieri – studioso attento, giornalista, già parlamentare del Pdl – restituisce di Filippo Corridoni ciò che «l’arcangelo sindacalista» ha donato alla “comunità” operaia degli anni ’10 del secolo scorso e poi agli interpreti di quello «spirito nuovo» che su questo costruirono il solidarismo fascista, e nel dopoguerra, la Cisnal, la confederazione “di destra” sorta nel solco tracciato dal rivoluzionario marchigiano (ancora oggi richiamato dall’Ugl). Non solo un esempio eccezionale di “milite” del lavoro quindi, ma una sintesi incarnata e ragionata di etica ed estetica, di pacifismo ed interventismo, di socialismo e nazionalismo così come di ricette che ritornano attuali oggi, come l’antiparlamentarismo e la democrazia diretta, o di presunte antinomie, il liberismo inteso come “medicina” antiborghese e la scuola «libera» dai condizionamenti dello Stato.
C’è stato tutto nella vita avventurosa di questo sindacalista rivoluzionario: ispirato da Sorel, e quindi diversamente marxista; giunto poi a sposare la causa nazionale, minacciata dagli Imperi centrali e dall’accidia dello Stato giolittiano, intesa come forza liberazzatrice della classe operaia; morto, dopo una gioventù trascorsa su posizioni anti-interventiste, da volontario e a soli ventottanni sulla Trincea delle Frasche nel 1915 perché intravvide nella guerra, come ricorda chi lo ha conosciuto, «quella rivoluzione nazionale e sociale che egli predicò nelle piazze».
Il percorso, affascinante, spericolato e come vediamo pieno di vitalistiche contraddizioni, è tracciato con precisione e con una chiave di lettura diacronica in Corridoni (edizioni Fergen, pp. 105, €10), un’opera agile ma significativa dove Malgieri aiuta ad andare oltre la parabola dell’eroe santificato dopo la morte dal fascismo (Corridoni fu amico e sodale del Benito Mussolini socialista e agitatore), per restituirci la figura completa di un rivoluzionario “morale” e non moralista che ha individuato nel sempreverde trasformismo parlamentare e nell’accomodamento delle élite, che fuggono dalla loro missione storica per accasarsi sotto il mantello dello Stato ieri e dell’Ue oggi, quel freno a mano tirato che blocca lo sviluppo e annichilisce gli elementi vitali, la vena viva di una Nazione: i suoi lavoratori.
Il Giornale, 1 marzo 2018
Storia in rete
sannio press
#Profili| La rivoluzione di Corridoni
aprile 10, 2018 by giancristiano
Che cos’è la borghesia italiana? Ne trovo un giudizio severo, ma serio e rigoroso, in alcune parole di Filippo Corridoni: “La borghesia italiana è l’ultima venuta sul campo della produzione; essa non ha tradizioni e non ha metodo; è povera e ci tiene a non rischiare il suo capitale che a colpo sicuro; è infingarda e lazzarona e non vuol faticare, non vuol lottare, non vuole avere fastidi; rinuncia alla gallina del domani per la coccia dell’uovo dell’oggi: e si mette in mano dello Stato. Questo la spolpa, l’assassina, ma la contenta”. Dove la chiave di lettura è nell’ultimo rigo: per non rischiare la borghesia si mette nelle mani dello Stato che la contenta, cioè la protegge, ma al contempo le fa pagare un prezzo alto perché la spolpa e alla fine la uccide, la uccide come borghesia. Cos’è, infatti, oggi la borghesia? Esiste la borghesia italiana o non siamo tutti dei sottoborghesi viventi e morenti in un grande blob gelatinoso nel quale speranzosi attendiamo che lo Stato ci tragga in salvo e così speranzosi moriamo infingardi e lazzaroni?
Già, ma intanto è sempre giusto il luogo manzoniano: Corridoni, chi era costui? Operaio figlio di operaio, una vita in fornace, quindi sindacalista ma dalla testa intelligente e calda e allora sindacalista rivoluzionario sulla scorta del genio di Georges Sorel, giornalista e agitatore, politico e pacifista ma anche soldato che finì la breve e intensa vita come l’iniziò: in una fornace, quella della Grande guerra, dove andò volontario, forse perché aveva un appuntamento con la morte nella “Trincea delle Frasche” il 23 ottobre 1915. Il suo corpo non venne mai ritrovato, fu rapito dagli dèi, come accadeva nell’antichità agli eroi caduti sul campo di battaglia. Ma la sua morte eroica sarà anche la sua condanna perché la retorica lo ucciderà poi una seconda e una terza e una quarta volta facendo di lui ora un precursore del fascismo ora un sindacalista tout-court. E, invece, il segreto di Filippo Corridoni è in quelle poche righe sulla borghesia il cui destino vorrebbe sottrarre all’illusione del protezionismo statale per farne un’occasione di libertà per quanti come lui, operai, contadini, proletari si affacciavano in massa alla finestra della storia e della vita nazionale. Ecco perché se volete introdurvi alla conoscenza della vita intensa di Corridoni fattasi tutta pensiero agitato e azione diretta nell’intento di tirar fuori il proletariato dal suo destino e dal suo pericolo dovete leggere il profilo che Gennaro Malgieri ne ha scritto: Corridoni (fergen, 10 euro). Sono esattamente 99 pagine, rapide come un lampo, scintillanti come una lama al sole.
La particolarità del saggio di Malgieri sta nella corsa che si fa nella vita spericolata di Corridoni prendendola, però, per il verso del pensiero. Il sindacalismo rivoluzionario è un’antica passione del mio amico Gennaro, una passione che si unisce alla storia d’Italia e alla ricostruzione di idee e uomini dimenticati, quando non volutamente dannati e abbandonati. Il sindacalismo rivoluzionario di Filippo Corridoni è nutrito della lezione di Sorel e il cuore del pensiero del grande francese era tutto nella tesi anti-marxista che il proletariato si dovesse organizzare autonomamente e, quindi, non dovesse dipendere da un partito politico. C’è bisogno di sottolineare l’importanza della posizione di Sorel? Se la coscienza di classe del proletariato dipende dal partito comunista, allora, lo stesso proletariato si prepara a partecipare ad una finta rivoluzione in cui sarà il partito a impossessarsi dello Stato e ad instaurare una dittatura sul proletariato. Quanto è accaduto nel Novecento.
Corridoni, il giovanissimo Corridoni, ne era consapevole e mentre era rinchiuso nel carcere di San Vittore scrisse Sindacalismo e Repubblica che riassume la sua concezione di sindacalismo rivoluzionario che ai nostri occhi si presenta oggi come una rivoluzione prima di tutto morale. Corridoni esponeva il suo “programma” in otto punti andando dalla federazione delle province (con assegnazione di attributi statali) alla nazione armata, dal libero scambio e la fine delle sovvenzioni statali alla scuola libera, dalla soppressione della polizia di Stato al referendum. Che cosa aveva capito il giovane sindacalista e soldato? Aveva capito che lo Stato borghese poteva cadere nelle mani di forze politiche e sindacali di massa ben organizzate e in quelle mani lo Stato, ormai ex borghese, sarebbe diventato un Leviatano. Ecco perché Corridoni nutrì una doppia “illusione”: da un lato di indebolire le forze statali e dall’altro di emancipare gli operai dalla dipendenza politica o di partito. Cento anni dopo queste idee escono ancora vive dalla fornace.
SECOLODITALIA.IT
Corridoni: libro di Malgieri riscopre l’apostolo del socialismo nazionale
Corridoni è stata una delle figure più affascinanti del primo ‘900
Tutt’altro è l’intento di Malgieri. Che attraverso una essenziale ma nient’affatto sommaria disamina dell’irripetibile temperie culturale e politica che segnava l’Italia dei primi anni del secolo scorso si preoccupa soprattutto di restituire Corridoni alla sua tormentata vicenda umana e politica calandolo nelle sanguigne passioni e nelle feroci contraddizioni del suo tempo. Passioni e contraddizioni che egli stesso contribuì a incanalare e a superare attraverso sintesi ardite ed inedite, molte delle quali ancor oggi incredibilmente attuali. Del resto, la morte stessa di Corridoni appare l’effetto di un cortocircuito esistenziale. Si arruolerà volontario – lui condannato per istigazione alla diserzione per i suoi articoli su Rompete le righe, foglio antimilitarista fondato assieme all’anarchica Maria Rygier – per poi morire eroicamente in grigioverde nella Trincea delle Frasche, a San Martino del Carso nell’ottobre del 1915.
La violenza come levatrice della rivoluzione
Guerra e sciopero generale insurrezionale: due facce della stessa violenza necessaria, unica levatrice del riscatto sociale e morale delle masse proletarie. Agli occhi di Corridoni, come del resto a quelli del suo compagno di lotta e d’ideale Benito Mussolini, lo scontro bellico con gli Imperi Centrali non era in continuità con la retorica dell’epopea risorgimentale. Per entrambi, la guerra tra le nazioni era soprattutto il pedaggio pagato alla storia dalla rivoluzione proletaria. L’una precedeva l’altra, esattamente come gli assalti dalle trincee avrebbero preparato l’insurrezione popolare. Guerra e sciopero, i due grimaldelli grazie ai quelli le masse (non ancora popolo) avrebbero fatto irruzione sul grande proscenio della storia. Malgieri illumina con particolare efficacia lo scontro che si consuma in quei tumultuosi frangenti nel socialismo europeo e nel sindacato italiano. Corridoni avverte e percepisce come pochi che il determinismo storico insito nella dialettica marxista rischia di rivelarsi una formula astratta incapace di decifrare le drammatiche sfide poste dal nuovo secolo. Lo scoppio della Grande Guerra ha riportato tutti ai blocchi di partenza: i socialisti francesi sono in armi contro i socialisti tedeschi. Il crepitare delle mitraglie sui vari fronti di combattimento suona come campane a morto delle utopie della Seconda Internazionale. Corridoni comprende che il proletariato può assurgere a protagonista del proprio destino solo se riuscirà a coniugare la classe con la nazione.
Protagonista con Mussolini e D’Annunzio del “Maggio radioso”
È l’intuizione che spiana la strada all’originalità del Novecento italiano. È la scintilla che fonderà in una nuova e feconda sintesi guerra e rivoluzione, operaio e soldato, trincea e barricata. È il mito dell’Italia “Grande proletaria” che rompe i vecchi recinti ideologici accomunando nella grande battaglia interventista culminata nel “Maggio radioso” del 1915 sindacalisti soreliani come Corridoni, socialisti rivoluzionari come Mussolini, nazional-imperialisti come Enrico Corradini, poeti come Gabriele D’Annunzio, intellettuali come Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini, Ardengo Soffici. È a loro che si deve la fine dell’Italietta giolittiana e del parlamentarismo parolaio e inconcludente. A Malgieri, invece, va il merito di aver estratto dall’oblio insolente e dal “marmo” agiografico la fascinosa figura di Corridoni per restituirlo alla sua dimensione di indomito Prometeo che ha testimoniato con il sangue di soldato della nazione la propria fedeltà alla rivoluzione e al proletariato.
Corridoni: libro di Malgieri riscopre l’apostolo del socialismo nazionale
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PERSONAGGI
Gennaro Malgieri, Corridoni (Fergen pagg. 104, Euro 10,00)
Breve profilo politico e intellettuale del sindacalista Filippo Corridoni, una delle figure più controverse e complesse del movimento rivoluzionario del primo Novecento. Ma anche un anticipatore di “nuove sintesi” politiche, foriere di sviluppi teorici e pratici di indiscutibile portata storica. Una vasta letteratura ce lo consegna nei modi più disparati: tutti sono plausibili ed è legittima qualsivoglia interpretazione del suo breve eppure intenso cammino tra le intemperie degli anni Dieci fino alla tragica ed eroica morte in battaglia. Il suo sindacalismo rivoluzionario, come mostra Gennaro Malgieri in questo profilo politico ed intellettuale, si caratterizza per l’originalità interpretativa e per la moralità con la quale egli ha perseguito il suo scopo, sposando estetica rivoluzionaria e revisionismo marxista ed assurgendo ad “anticipatore” del fascismo.
http://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=8986&categoria=1&sezione=7&rubrica=40
L’INTELLETTUALE DISSIDENTE
Le nuove sintesi corridoniane
A partire dal centenario della morte, avvenuto il 23 ottobre del 2015, Filippo Corridoni ha vissuto una nuova fase del ricordo attraverso commemorazioni, convegni, deposizioni e dediche in ogni caso legate principalmente alla figura eroica del martirio da volontario nella Grande Guerra piuttosto che agli scritti e al lascito teorico di cui hanno usufruito il sindacalismo rivoluzionario prima, il fiumanesimo e il fascismo dopo. La figura che spesso emerge da queste manifestazioni è quella di un Corridoni grande organizzatore e agitatore sindacale, sicuramente le sue migliori qualità, ma fin troppo riduttiva per quanto prodotto dal sindacalista marchigiano nella sua breve vita. E’ su questo canale che si inserisce il nuovo lavoro di Gennaro Malgieri a lui dedicatogli, Corridoni edito dalla casa editrice Fergen per la nuova collana “Profili”.
Il centenario della Prima Guerra Mondiale si avvia alla conclusione e con esso si è indubbiamente persa l’occasione di riaprire il dibattito su immani questioni nazionali. Una fra tutte viene offerta dal libro di Malgieri ed è il motivo dell’interventismo o meglio i diversi motivi delle avanguardie culturali novecentesche italiane. Se, infatti, per il nazionalismo di Enrico Corradini e il futurismo di Filippo Tommaso Marinetti la guerra rappresentava fin dal principio della loro formazione una parola chiave, nel sindacalismo rivoluzionario, e nel socialismo intero, fu un tabù fino alla svolta annunciata e voluta proprio da Alceste De Ambris e Filippo Corridoni. Lo stravolgimento della posizione dal neutralismo all’interventismo fu voluto nell’ottica di far diventare il proletariato soggetto di primo piano nella vicenda nazionale con la partecipazione al conflitto e, quindi, legittimato a decidere del destino della comunità alla quale apparteneva. Le intuizioni di Corridoni seguirono di pari passo la divisione fra le anime del socialismo a partire da quella fra riformisti e rivoluzionari. La visione organizzativa dei rivoluzionari fu sempre legata al solo sindacato visto come una struttura slegata dal partito (socialista) in netto contrasto con chi lo voleva subordinato alle scelte dei compagni di lotta sedutisi e abbeveratisi agli scranni del Parlamento. La posizione di un sindacato autonomo dalla logica della politica partitica ha rappresentato la sconfitta dei rivoluzionari sia prima del grande conflitto che immediatamente dopo, quando pur confluendo in larga parte nelle nuove organizzazioni fasciste, i rivoluzionari furono relegati al terzo gradino del podio dopo lo Stato e il Partito.
La forza delle idee espresse da Corridoni sulle pagine de L’Internazionale, l’organo della nuova Unione Sindacale Italiana, o nei libelli dati alle stampe in quegli anni è, però, sopravvissuta alla sua morte ed è stata in grado di contaminare i momenti storici più salienti del primo e perfino del secondo dopo guerra. Evidente il contributo di Alceste De Ambris nella Costituzione della Reggenza dannunziana di Fiume, non meno importanti sono i punti di contatto presenti con la Carta del Lavoro del 1927 o il ruolo di primo piano avuto da un sindacalista rivoluzionario come Giuseppe Di Vittorio nell’organizzazione sindacale della rinata Cgil dopo il secondo conflitto mondiale. D’altronde fu Filippo Corridoni ad annunciare l’inutilità dello sciopero generale a pochi anni dai primi grandi scioperi organizzati nella Penisola, spiegando che a nulla sarebbero valsi se non seguiti dall’espropriazione dei mezzi produzione. Fu sempre Corridoni ad immaginare una riorganizzazione del sindacato e a parlare di liberismo nel mercato perché il protezionismo avvantaggiava i proprietari delle industrie senza innescare il processo marxista necessario alla spinta rivoluzionaria.
Il grande merito del lavoro di Malgieri è quello di restituirci un Filippo Corridoni a trecentosessanta gradi, schietto e gioioso con i compagni di lotta, infaticabile organizzatore e spesso “ospite” delle case circondariali del Regno d’Italia ma anche fabbro. E’ proprio così che l’autore si riferisce al sindacalista per spiegare la capacità di questo uomo nel saldare concetti che, fino a quel momento, sembravano in assoluta antitesi. Pacifismo e interventismo, socialismo e nazione, classe e popolo, repubblica e sindacato, liberismo ed antiborghesia, democrazia diretta ed antiparlamentarismo hanno segnato una nuova e originale dottrina rendendolo un modernizzatore dell’ideologia e un precursore di modelli politici aggregativi fondati sull’eresia. Tutte capacità che oggi non si ritrovano né nel mondo sindacale né in quello politico dove il dibattito annaspa alla deriva e non si evince la benché minima analisi dei processi che stanno rapidamente cambiando il nostro presente e che così bene Filippo Corridoni aveva compreso già un secolo fa.
http://www.lintellettualedissidente.it/storia/lfilippo-corridoni-gennaro-malgieri/
CULTURAPERLAPARTECIPAZIONECIVICA.IT
Malgieri racconta Corridoni
di Sergio Menicucci
I sindacati, oggi in Italia, attraversano un periodo d’oscuramento dopo essere stati protagonisti, per anni, di grandi manifestazioni di piazze e potenti strumenti di potere. I sistematici scioperi dei trasporti pubblici per quasi tutti i venerdì dell’anno, la paralisi dei treni, degli aeroporti, degli ospedali hanno provocato una specie di rifiuto e di sfiducia nei confronti delle organizzazioni che istituzionalmente dovrebbero tutelare i lavoratori, i più deboli (giovani e donne), partecipare alla crescita dei posti di lavoro. La realtà dimostra che il disagio sociale è cresciuto, il lavoro o manca o è precario, le disuguaglianze in aumento, il divario Nord-Sud sempre più preoccupante. Raccontare il profilo, le idee, le azioni del “sindacalista rivoluzionario” Filippo Corridoni, come fa il giornalista e scrittore Gennaro Malgieri nella collana i profili riporta la riflessione sulle passioni, le spinte ideali degli inizi degli anni Novecento quando il conflitto sociale toccò punte elevate, sfociate in violenze, arresti, rivolte per gli scontri in piazza tra operai e Forze dell’ordine, occupazioni delle fabbriche, scioperi per settimane. Filippo Corridoni, ricorda Malgieri, è stata una delle figure più controverse e complesse non solo del movimento rivoluzionario ma anche un anticipatore di nuove sintesi politiche. L’idea della emancipazione del proletariato, della sua necessità di lottare ed imporsi alla borghesia per diventare soggetto di primo piani nella vicenda nazionale trova in Corridoni un trascinatore nelle piazze e nelle fabbriche. Le inquietudini sociali e politiche portano Corridoni, lui antimilitarista e anti patriota, ad abbracciare l’interventismo di Oriani, Corradini, D’Annunzio, Mussolini considerando la guerra come premessa per il rinnovamento dell’Italia liberata da ogni oppressione e controllo straniero e da ogni tirannia interna. Corridoni, osserva Malgieri, era mosso dalla rivendicazione dell’indipendenza nazionale e dall’affermazione dello spirito nuovo che “i rivoluzionari” volevano imprimere all’Italia, sottratta anche moralmente dall’egemonia della borghesia. All’azione aggiunge un ampio e sostanzioso “corpus dottrinario”, foriero di sviluppi teorici e politici. Se la responsabilità del fascismo mussoliniano fu quella di troppo affetto per Corridoni gli storici e i sindacalisti del secondo dopoguerra hanno la colpa di aver ignorato e rimosso un sindacalista di grandi vedute, di profonda capacità organizzative, di trascinatore delle folle di operai, consapevole che il sindacato non poteva bastare da solo a risvegliare le coscienze, eliminare la miseria, superare la debolezza delle classi più deboli. “ Corridoni, scrive ancora Malgieri, accettò la guerra nella certezza che sarebbe stata una rivoluzione”, battendo le nazioni militariste e conservatrici con Germania e Austria. Sindacalista e rivoluzionario dando sempre l’esempio in piazza nelle manifestazioni e in guerra dove partì volontario con i suoi due fratelli fino all’appuntamento con la morte nella Trincea delle Frasche, il 23 ottobre 1915. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Divenne da giovane agitatore marchigiano apostolo del lavoro ed eroe della patria, a soli 28 anni. La sua figura, il suo pensiero, la sua azione meritavano di essere raccontati ancora, osserva Malgieri, per i tanti spunti di riflessione che offrono sia dal punto di vista della teoria sindacale che sotto il profilo politico. L’eredità principale del sindacalista rivoluzionario è quella di aver saputo spingere i lavoratori a riconciliarsi con la Patria. E in uno degli ultimi scritti c’è un’osservazione preveggente di geopolitica “l’Italia è come un ponte tra Europa e Africa ed è vicina ai grandi mercati asiatici che permetteranno un più razionale sfruttamento delle nostre energie”. Le vicende del Mediterraneo e dei flussi migratori lo stanno dimostrando.
http://www.culturaperlapartecipazionecivica.it/libri.php
CULTURELITE.COM
Gennaro Malgieri, “Filippo Corridoni” (Ed. Fergen)
- di Federico Colonna
“La borghesia italiana è l’ultima venuta sul campo della produzione; essa non ha tradizioni e non ha metodo; è povera e ci tiene a non rischiare il suo capitale che a colpo sicuro; è infingarda e lazzarona e non vuol faticare, non vuol lottare, non vuole avere fastidi; rinuncia alla gallina del domani per la coccia dell’uovo dell’oggi: e si mette in mano dello Stato. Questo la spolpa, l’assassina, ma la contenta», scriveva negli anni Dieci Filippo Corridoni, l’eroe che non a caso venne difinito “l’Arcangelo del sindacalismo”. Da questo assunto non si può prescindere se lo si vuole comprendere nei molteplici ed apparentemente contraddittori aspetti della sua multiforme personalità. Ed è questo l’intento di Gennaro Malgieri che con il suo saggio dedicato al capofila del sindacalismo rivoluzionario si prefigge allo scopo di avvicinarlo, in maniera originale ed inedita, al movimento Volkisch tedesco – uno degli elementi più rappresentativi della Rivoluzione conservatrice, pressoché coevo del sindacalismo rivoluzionario italiano. Una prospettiva inusuale che apre la strada a nuovi orizzonti interpretativi.
Filippo Corridoni (1887-1915) è una delle figure più controverse e complesse del movimento rivoluzionario del primo Novecento. Ma anche anticipatore di “nuove sintesi” politiche foriere di sviluppi teorici e pratici di indiscutibile portata storica. Come si evince dalla sua intensa attività di agitatore e di pubblicista (aspetto sempre sottovalutato), Corridoni è stato un antesignano del superamento delle categorie politiche ottocentesche che oggi può dire molto guardando agli esiti delle fase estrema del capitalismo che ha portato alla disumanizzazione del lavoro.
Una vasta letteratura ce lo consegna nei modi più disparati: tutti sono plausibili ed è legittima qualsivoglia interpretazione del suo breve eppure interessante cammino tra le intemperie degli anni Dieci fino alla tragica ed eroica morte nella Trincea delle Frasche. Al di là delle passioni ideologiche e delle strumentalizzazioni di parte, non meno delle demonizzazioni postume, non si corre il rischio di appropriarsene indebitamente giudicandolo un antesignano del bellicismo proletario come necessità rivoluzionaria. Egli fu un convinto sostenitore dell’impegno italiano nella Prima Guerra Mondiale non perché ritenesse fondate le ragioni degli interventisti borghesi, a cominciare dalla retorica sul “completamento del Risorgimento”, ma per l’opposta ragione. Vale a dire: far diventare il proletariato, con la partecipazione al conflitto, soggetto attivo e di primo piano nella vicenda nazionale. L’etica corridoniana, in questo senso, si sposa con l’estetica rivoluzionaria a cui egli stesso ha dato un notevole impulso, attratto da Sorel non meno che da un marxismo rivisitato, depurato dalla componente internazionalista e ripulito dal materialismo secondo l’esperimento “scientifico” proposto da Lassalle, Bernstein, Lagardelle e poi, in Italia, da Arturo Labriola e da Enrico Leone. Un’estetica che nell’azione diretta avrebbe avuto la sua esplicitazione formale più evidente e da essa avrebbe tratto ispirazione un’intera generazione per trarsi dall’impaccio di un rivoluzionarismo datato e sterile, invecchiato nell’esaltazione retorica della Comune di Parigi e dei moti del Quarantotto. In altri termini, con Corridoni fa irruzione nello smantellamento della pratica marxista il decisionismo individualista che cerca di contagiare le classi affinché assumano la responsabilità della partecipazione alla guida della nazione. Ed il suo sindacalismo rivoluzionario, come cerca di mostrare Gennaro Malgieri nel breve, ma essenziale profilo politico ed intellettuale (Corridoni, Fergen, pp. 105, € 10, per ordinarlo: info@fergen.it), si caratterizza per l’originalità rispetto ad altri sindacalisti e per la moralità con la quale egli ha perseguito il suo scopo. Il volumetto è il primo della collana “Profili” diretta da Malgieri cui seguiranno a breve i saggi di Mario Missiroli L’ultimo Sorel e quello di Francesco Coppola e Maurizio Maraviglia, Alfredo Rocco.
http://www.culturelite.com/categorie/scritture/gennaro-malgieri,-%E2%80%9Cfilippo-corridoni%E2%80%9D-ed-fergen.html?highlight=WyJtYWxnaWVyaSJd
BARBADILLO.NET
Libri. “Corridoni” di Malgieri tra sindacalismo rivoluzionario e movimento volkish
Filippo Corridoni (1087-1915) è un delle figure più controverse e complesse del movimento rivoluzionario del primo Novecento. Ma anche un anticipatore di “nuove sintesi” politiche foriere di sviluppi teorici e pratici di indiscutibile portata storica. Come si evince dalla sua intensa attività di agitatore e di pubblicista (aspetto sempre sottovalutato), Corridoni è stato un antesignano del superamento delle categorie politiche ottocentesche che oggi può dire molto guardando agli esiti delle fase estrema del capitalismo che ha portato alla disumanizzazione del lavoro.
Una vasta letteratura ce lo consegna nei modi più disparati: tutti sono plausibili ed è legittima qualsivoglia interpretazione del suo breve eppure interessante cammino tra le intemperie degli anni Dieci fino alla tragica ed eroica morte nella Trincea delle Frasche. Al di là delle passioni ideologiche e delle strumentalizzazioni di parte, non meno delle demonizzazioni postume, non si corre il rischio di appropriarsene indebitamente giudicandolo un antesignano del bellicismo proletario come necessità rivoluzionaria. Egli fu un convinto sostenitore dell’impegno italiano nella Prima Guerra Mondiale non perché ritenesse fondate le ragioni degli interventisti borghesi, a cominciare dalla retorica sul “completamento del Risorgimento”, ma per l’opposta ragione. Vale a dire: far diventare il proletariato, con la partecipazione al conflitto, soggetto attivo e di primo piano nella vicenda nazionale. L’etica corridoniana, in questo senso, si sposa con l’estetica rivoluzionaria a cui egli stesso ha dato un notevole impulso, attratto da Sorel non meno che da un marxismo rivisitato, depurato dalla componente internazionalista e ripulito dal materialismo secondo l’esperimento “scientifico” proposto da Lassalle, Bernstein, Lagardelle e poi, in Italia, da Arturo Labriola e da Enrico Leone. Un’estetica che nell’azione diretta avrebbe avuto la sua esplicitazione formale più evidente e da essa avrebbe tratto ispirazione un’intera generazione per trarsi dall’impaccio di un rivoluzionarismo datato e sterile, invecchiato nell’esaltazione retorica della Comune di Parigi e dei moti del Quarantotto. In altri termini, con Corridoni fa irruzione nello smantellamento della pratica marxista il decisionismo individualista che cerca di contagiare le classi affinché assumano la responsabilità della partecipazione alla guida della nazione. Ed il suo sindacalismo rivoluzionario, come cerca di mostrare Gennaro Malgieri nel breve, ma essenziale profilo politico ed intellettuale (Corridoni, Fergen, pp. 105, € 10, per ordinarlo: info@fergen.it), si caratterizza per l’originalità interpretativa e per la moralità con la quale egli ha perseguito il suo scopo.
Il volumetto è il primo della collana “Profili” diretta da Malgieri cui seguiranno a breve i saggi di Mario Missiroli L’ultimo Sorel e quello di Francesco Coppola e Maurizio Maraviglia, Alfredo Rocco.
«La borghesia italiana è l’ultima venuta sul campo della produzione; essa non ha tradizioni e non ha metodo; è povera e ci tiene a non rischiare il suo capitale che a colpo sicuro; è infingarda e lazzarona e non vuol faticare, non vuol lottare, non vuole avere fastidi; rinuncia alla gallina del domani per la coccia dell’uovo dell’oggi: e si mette in mano dello Stato. Questo la spolpa, l’assassina, ma la contenta», scriveva negli anni Dieci Filippo Corridoni: da questo assunto non si può prescindere se lo si vuole comprendere nei molteplici ed apparentemente contraddittori aspetti della sua multiforme personalità. Un contributo questo di Malgieri che tende ad avvicinare, inoltre, Corridoni al movimento Volkisch tedesco quasi coevo del sindacalismo rivoluzionario italiano. Una prospettiva inusuale che apre la strada a nuovi orizzonti interpretativi.
Di Obdulio Varela
http://www.barbadillo.it/73427-libri-corridoni-di-malgieri-tra-sindacalismo-rivoluzionario-e-movimento-volkish/
FORMICHE.NET
Estetica ed etica della rivoluzione in Filippo Corridoni. Un saggio di Gennaro Malgieri
È appena uscito il saggio di Gennaro Malgieri “Corridoni” (Fergen, pp.105, € 10), dedicato alla figura dell’eroe sindacalista rivoluzionario morto eroicamente il 23 ottobre 1915 sul Carso, all’età di ventotto anni
È un profilo intellettuale quello che propone Malgieri, indicando in Corridoni l’anticipatore di “nuove sintesi” politico-culturali di cui coglie sorprendenti analogie con il dibattito attuale. Qui di seguito anticipiamo il primo capitolo dedicato all’“etica e all’estetica della rivoluzione”.
Filippo Corridoni è stato considerato in molti modi nel corso dei cento anni seguiti alla sua morte. Una vasta letteratura ce lo consegna nei modi più disparati: tutti sono plausibili ed è legittima qualsivoglia interpretazione del suo breve eppure intenso percorso. Mettendo insieme il tutto, al di là delle passioni ideologiche e delle strumentalizzazioni di parte, oltre alle demonizzazioni postume, non si corre il rischio di appropriarsene indebitamente giudicandolo un antesignano del bellicismo proletario come necessità rivoluzionaria.
corridoniInsomma, egli fu un convinto sostenitore dell’impegno italiano nella Prima Guerra Mondiale non perché ritenesse fondate le ragioni degli interventisti borghesi, a cominciare dalla retorica intorno al “completamento del Risorgimento”, ma per l’opposta ragione. Vale a dire: far diventare, con la partecipazione al conflitto, il proletariato soggetto di primo piano nella vicenda nazionale e, dunque, legittimato a decidere del destino della più vasta comunità alla quale apparteneva che con il processo di unificazione aveva avuto ben poco a che fare.
L’etica corridoniana in questo senso si sposa con l’estetica rivoluzionaria a cui egli stesso ha dato un notevole impulso, attratto dal sorelismo non meno che da un marxismo rivisitato, depurato dalla componente internazionalista e ripulito dal materialismo secondo l’esperimento “scientifico” proposto da Lassalle, Bernstein, Lagardelle e poi da Arturo Labriola e da Enrico Leone. Un’estetica che nell’azione diretta avrebbe avuto la sua esplicitazione formale più evidente e da essa avrebbe tratto ispirazione un’intera generazione per trarsi dall’impaccio di un rivoluzionarismo datato e sterile, invecchiato nell’esaltazione retorica della Comune di Parigi e dei moti del Quarantotto.
In altri termini, con Corridoni – ma si potrebbe dire con la dottrina della “violenza necessaria” di Sorel ancor prima – fa irruzione nello smantellamento della pratica marxista il decisionismo individualista che cerca di conta- giare le classi affinché assumano la responsabilità della partecipazione alla guida della nazione. In tal senso l’etica e l’estetica rivoluzionaria, come si vedrà dalle note che seguono, si tengono nella figura di Corridoni caratterizzandola tra tutte le figure rivoluzionarie dell’epoca, perfino rispetto a quelle più prestigiose come Benito Mussolini, per una sua peculiarità assimilabile, in un diversissimo contesto, ai nazional- conservatori tedeschi che nello stesso torno di tempo, rifiutato il marxismo come ispirazione, riescono a mettere insieme l’elemento völkisch con quello più propriamente sociale e nazionale.
Corridoni, tanto per fare un esempio, era alla stregua di Ernst von Salomon o di Ernst Niekisch o di Otto e Gregor Strasser – che si sarebbero manifestati nel dopoguerra come soggetti attivi, generati da movimenti rivoluzionari an- tiborghesi – il simbolo delle inquietudini che nel primo Novecento scuotevano, non diversamente dalla Germania, l’Italia la cui formazione sta- tuale era per certi versi simile a quella della nazione tedesca. In entrambe la questione sociale e quella nazionale s’intrecciavano e, per di più, sollevazioni popolari contro il potere costituito, contro la borghesia capitalista che lo sosteneva, non erano tanto dissimili. In un contesto di totale indecisione, nel caotico svolgersi della vita politica, nel disagio provocato soprattutto nelle classi meno abbienti dal trasformismo parlamentare (il riformismo socialista ne era uno degli esempi più eloquenti) Corridoni, ma non solo lui, com’è noto, riassumeva nella sua militanza rivoluzionaria un “sentimento” di rinascita sociale.
La comunità nazionale, infatti, era prigioniera in parte di una cultura politica tendente a sviluppare un senso di irreggimentazione del pensiero e delle libertà individuali, in una logica oggettivamente di sopraffazione quale ideologia della meccanizzazione del lavoro e dell’appropriazione delle esistenze dei lavoratori stessi. Il benessere materiale come conquista di una borghesia, incapace di guardare oltre il proprio meschino orizzonte – cui si opponevano giovani intellettuali come Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Giovanni Boine, Scipio Slataper, oltre a Enrico Corradini, ai numerosi “figli” di Alfredo Oriani ed al trionfante Gabriele D’Annunzio – tendeva a corrompere un proletariato sempre più attratto da quella standardizzazione di vita che la classe dominante gli proponeva.
Grazie al socialismo riformista e trasformista che aveva messo all’asta gli ideali per poche once di considerazione da parte della borghesia erede del risorgimentalismo privo di gloria e di ambizione (Francesco Crispi se n’era andato da un pezzo), in Italia, non diversamente da altri Paesi europei, in particolare modo Francia, Inghilterra e Germania, negli anni Dieci del secolo scorso l’affarismo partitico diede vita ad una dimensione degenerata della dialettica tra classi e gruppi di potere. Il risultato fu che i meno abbienti, abbacinati dal mito del progresso, da miraggi edonistici e dalla promessa di una partecipazione irrealizzabile nelle condizioni del tempo alla vita politica nazionale, furono indotti a consegnarsi ad un democratismo di facciata in- carnato dal parlamentarismo con la convinzione di contare finalmente qualcosa.
A questo punto di corruzione il socialismo ancora di stampo marxista, incarnato dal Psi dei Turati e dei Treves, aveva condotto la classe operaia nel recinto del giolittismo dove avrebbe dovuto spirare per asfissia. La reazione del sindacalismo rivoluzionario fu morale e politica, classista e inconsapevolmente nazionale come si evincerà dalla sua scelta di schierarsi per l’in-tervento nella guerra mondiale. A taluno, non impropriamente, verrebbe oggi in mente di qualificare l’atteggiamento di Corridoni e com- pagni come “populista” o “antipolitico”. Potrebbe essere corretto se ad entrambe le definizioni si facesse corrispondere l’obiettivo di restaurare, attraverso la presa d’atto delle ragioni del popolo e l’accusa del politicantismo imperante, un’idea partecipativa della politica richiamando quella concezione della “lotta” che Alfredo Oriani aveva inutilmente cercato di diffondere con l’appello ad una “rivolta ideale” che soltanto alcuni decenni dopo sarebbe diventata pratica corrente.
Corridoni può ben dirsi “discepolo inconsapevole” di Oriani e come tale, nazionalista e socialista al tempo stesso. La sua “antipolitica” ed il suo “populismo” furono volti a screditare il potere, ma ancor più a rendere cosciente il mondo operaio che il suo riscatto non poteva che passare attraverso un’etica del sacrificio (che sa- rebbe stata anche un’estetica della rivoluzione) tesa a riappropriarsi del proprio destino. Lo scopo era di dare dignità al lavoro degli umili, rigettare la meccanizzazione delle fatiche di- sprezzate in nome di un nuovo umanesimo, pervole” di Oriani e come tale, nazionalista e socia- lista al tempo stesso. La sua “antipolitica” ed il suo “populismo” furono volti a screditare il potere, ma ancor più a rendere cosciente il mondo operaio che il suo riscatto non poteva che pas- sare attraverso un’etica del sacrificio (che sa- rebbe stata anche un’estetica della rivoluzione) tesa a riappropriarsi del proprio destino. Lo scopo era di dare dignità al lavoro degli umili, rigettare la meccanizzazione delle fatiche di- sprezzate in nome di un nuovo umanesimo, per inaugurare un diverso modo di partecipare attraverso la dirompente “azione diretta” del sindacato operaio o di mestiere e, in politica, l’adozione della “democrazia diretta” della quale Giuseppe Rensi, scampato alla repressione milanese di Bava Beccaris nel 1898, e riparato a Lugano, nel 1901 con accenti quasi profetici andava scrivendo.
Corridoni penetrò forse più di chiunque altro lo spirito del tempo dal quale sarebbe scaturita una “mobilitazione totale” volta a restituire al popolo l’anima che poco alla volta, ed in forme anche violente, gli veniva sottratta per indirizzarlo a prendersi ciò che era suo: la nazione. Riuscì nell’intento. Nel solo modo possibile: mettere l’ardore rivoluzionario al servizio di una causa più coinvolgente qual era la guerra. E dalla guerra l’Italia, per quanto sfregiata materialmente, ne uscì rigenerata moralmente. Una guerra che, secondo Corridoni, non doveva es- sere né di difesa, né di conquista, ma occasione – cruenta certamente – di radicale mutamento: una guerra di popolo pensata per il popolo nella quale o si vince tutto o si perde tutto, simboleggiata essenzialmente da un non-luogo qual è la trincea dove i sentimenti ed i risentimenti con-vivono con gli ideali e le necessità, il sudore ed il sangue con la gloria effimera, quella più seducente e commovente. Il buco dove la speranza non ha cittadinanza, ma vi si fa strada lo “spirito eroico” a cui noi oggi, cento anni dopo, attribuiamo l’origine moderna di un’etica e di una estetica della rivoluzione.
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